“Antigone,
una donna del popolo, nella nostra Calabria si ribella a Creonte,
un arrogante politico locale, che ha ordinato, dopo l’ennesimo
naufragio di una chiatta nel mare proveniente dall’Africa,
che i corpi non dovranno essere recuperati, non dovranno toccare
il territorio calabrese, ma dovranno restare in mare, cibo per
i pesci, a dissuadere i migranti da altri tentativi di sbarco.
Antigone ha visto un corpo vicino alla riva, lo raccoglie e, nel
rispetto della pietas umana vi dà sepoltura e senza paura
affronta il castigo per non tradire la pietà verso i defunti.”
Se si vuole
riflettere sul presente
a partire dalla poetica e drammatica percezione del reale che
proviene dalla meditazione su “Antigone”, non è
consentito foderarsi gli occhi e bluffare. C’è una
tragedia, che è la più aspra e inquietante del nostro
tempo, che tuttavia, per una serie di convenienze, di calcoli
sondaggistici, di “se” e di “ma”, viene
sostanzialmente taciuta. Eppure è da lì che dobbiamo
partire. Da quelle centinaia di cadaveri dispersi e galleggianti
sul mare Mediterraneo, che di quel mare culla antichissima della
civiltà ne hanno fatto un penoso cimitero a cielo aperto.
Da quell’operazione di rimozione collettiva per cui noi,
emigranti di ieri, appena aggregati al club dei potenti ci trasformiamo
repentinamente in carnefici, in cinici e spietati controllori
dei nostri sacri confini.
In quella penosa contraddizione, in quella tragedia del mare e
della terra su cui lo sguardo fatica a soffermarsi, in quella
fucina di retorica a buon mercato che produce ronde pittoresche
e rinascente razzismo: è lì che oggi vive Antigone
e si misura con Creonte, è lì che si consuma il
dilemma antico e veemente fra la forza e la ragione, fra la legge
e l’amore, fra il diritto positivo e il diritto naturale.E
per l’Antigone che si ribella alle tirannie ottuse e ciniche,
oggi maggioritarie, in nome del buonsenso, della carità
e dello spirito cristiano, la condanna non è la morte,
ma l’irrisione e la ghettizzazione. La morte è per
gli altri, per questa moltitudine di paria senza nome e senza
volto che accorrono richiamati dall’inganno delle mille
luci dei nostri canali televisivi, e qui si ritrovano bersagli
inerti delle nostre meravigliose tecnologie di annientamento e
di emarginazione. Il lavoro (in parte in lingua italiana e in
parte in lingua calabrese), scritto da Franco Dionesalvi, con
traduzioni in lingua calabrese di Mario Artese, non è una
riscrittura della tragedia di Sofocle, ma possiamo definirla una
rivisitazione e un pretesto per parlare della storia dei nuovi
migranti, storia tragica ed epica nello stesso tempo: tragica
per quello che succede quotidianamente (naufragi, respingimenti,
ecc…), epica per la forza di questi uomini che per cambiare
il loro stato di ultimi del mondo, non hanno paura di affrontare
anche la morte. Lavorare sul dialetto, senza ricorrere alle facili
mercificazioni, agli imbarbarimenti, alle volgarità grasse
e gratuite che spesso ci vengono propinate, è un compito
abbastanza arduo, ma certo vale la pena operare un tentativo non
effimero, per conservare quel che resta e recuperare quello che
è possibile della nostra “lingua madre”